Migliorarsi: nel rispetto delle tappe di sviluppo personali
Quel che noi chiamiamo ‘miglioramento’ riguarda la conservazione dell’essere vivente. E’ un processo dinamico: genera il progresso, mira alla perfezione dell’essere in tutti i campi della vita e dell’agire.
Si potrebbe dire così: “affinchè tutto resti uguale, tutto deve cambiare”; ossia affinchè io sia il medesimo di ieri e di domani, da bambino e da vecchio, molto deve cambiare:
permane ciò che è sostanziale, cambia ciò che è accidentale
Tutti gli esseri soggetti al divenire non restano mai identici a se stessi: passano continuamente da uno stato ad un altro mediante un cambiamento che opera sempre, in bene o in male.
Ora, essere soggetto a cambiamento è nascere continuamente Ma qui la nascita non avviene per un intervento estraneo. Essa è il risultato di una scelta libera e noi siamo i nostri stessi genitori, creandoci come vogliam e con la nostra scelta dandoci la forma che vogliamo, in un certo senso “noi siamo figli dei nostri atti” (Gregorio di Nissa)
Ma il lavoro sull’autoimmagine richiede tutte le facoltà dell’uomo e la disponibilità all’aiuto esterno che viene dagli educatori, nonchè una dinamica apertura ai contributi e ai cambiamenti della società. Sarà questo un lavoro che durerà tutta la vita.
Succede infatti che quando avvengono dei cambiamenti nel nostro comportamento e nella nostra immagine, soprattutto per le persone a noi più vicine, non se ne rendono conto perchè c’è la tendenza ad avere un’idea fissa, ‘incasellata’ dell’altro. E’ importante quindi non scoraggiarsi e dimostrare pazientemente con azioni ripetute questo cambiamento.
A. Fogel a questo riguardo dice che
sia nel lavoro tutoriale che in quello di formazione, l’ingrediente essenziale del successo è una comunicazione corregolata nella quale ciascun partner è aperto ad essere influenzato dall’altro
Ma essere influenzato dall’altro significa prendere l’altro seriamente, rispettare la mutua influenza come patto di accordo, e riconoscere e ricompensare il contributo dell’altro alla evoluzione creativa della relazione; questo è – ancora una volta segno di libertà, in quanto essa è anche capacità di essere scelti, ma perchè questo avvenga è necessario essere liberi, disponibili.
Sin dalla prima infanzia avanziamo ognuno uscendo dal proprio guscio scoprendo il reale, accostandolo emotivamente, non razionalmente, e sappiamo che l’emozione che guida la nostra vitalità è lo stupore. Questo stupore ci porta all’indagine, alla gioia della scoperta, alla giocosa insoddisfazione della sperimentazione permanente, alla piena apertura del proprio essere di fronte al reale. Fino a quel momento – quello che non è conosciuto produce stupore, non paura. La paura è sempre indotta, non naturale, frutto di educazione.
Con il passare degli anni non viviamo più l’immediato presente: tutti colleghiamo cose ad eventi mediante il collante della memoria, personale e collettiva (storia o mito che sia). Viviamo su un racconto storico quando, dicendo “io” non mettiamo in questione di essere la naturale continuazione della storia dei nostri antenati. E vivendo sulla base di due memorie – quella individuale e quella collettiva per cui ci hanno raccontato quando e dove è nata nostra madre – siamo portati a confonderle, come se della nascita di nostra madre avessimo avuto la stessa esperienza oculare che abbiamo avuto del nostro ultimo viaggio.
Questo intrico di memoria individuale e collettiva allunga la nostra vita, sia pure all’indietro, e ci fa balenare davanti agli occhi della mente una promessa di immortalità.
Godere di questa memoria collettiva (attraverso i racconti, i libri, vivendo le storie dei luoghi originari) ci pone un poco nella condizione di Borges davanti al punto magico dell’Aleph: in qualche modo nel corso della nostra vita noi possiamo rabbrividire con Napoleone per un levarsi improvviso del vento dell’Atlantico su Sant’Elena, gioire con Enrico V per la vittoria di Azincourt, soffrire con Cesare per il tradimento di Bruto.
Allora è facile capire perchè la finzione ci affascina tanto. Ci offre la possibilità di esercitare senza limiti quella facoltà che noi usiamo sia per percepire il mondo sia per ricostruire il passato sia per emergere come esseri capaci ancora di sperimentare lo stupore della scoperta del mondo reale. Così, come il bambino giocando apprende a vivere, perchè simula situazioni in cui potrebbe trovarsi da adulto – Anche noi adulti attraverso la finzione addestriamo la nostra capacità di dare ordine sia all’esperienza del presente sia a quella del passato.
L’attività di giocare e simulare con le nostre storie è strettamente legata alla nostra vita quotidiana e all’immagine di noi stessi che ne viene modellata[piopialo][/piopialo]- dove il miglioramento avviene attraverso una sempre maggiore consapevolezza di ciò che è sostanziale, e di quanto invece vi è di accidentale e superfluo.
Ecco un’esperienza diretta in cui la simulazione, guidata attraverso la scoperta del colore, dello stile, dell’immedesimazione – immersi nel proprio contesto culturale e ambientale – per condurre al gioco del divenire un’immagine altra capace di accogliere lo stupore attraverso lo specchio fotografico.
L’Evento è solo alla sua seconda edizione e sta dimostrando l’efficacia e la profondità dell’azione senza perdere lo spirito leggero e competitivo del gioco.
A raccontare l’esperienza non sara’ solo la fotografia – ma la memoria e le emozioni di noi professionisti, delle famiglie, dei ragazzi protagonisti da cui emerge in quei momenti la compostezza e la consapevolezza di chi è pienamente presente. E lo trasmette. Rendendoci ancor più responsabili ognuno nel proprio piccolo contributo.
Grazie A Stella Pastore (parrucco) , Isabella Grasso (trucco) e Cabiria Pastore (costumista), eccezionalmente capaci sicure e delicate. Belle da vedere all’opera!
A tutte le pazienti e audaci mamme con cui mi sono relazionata: Cristina De Sario, Cabiria Pastore, Raffaella Morlino, Donatella Iaccarino, Marianna Buonarota, Arianna Falcone, Emiliana Novelli. Read more
“Egli con dita come il sonno lievi sfiorò le mie pupille”
(A. S. Puskin, Il profeta, in Lirica)
Ma esiste persino un tocco più lieve di queste dita leggere come il sonno, ed è il tocco della vista. La facoltà più elastica e più pronta in qualsiasi momento a servire come pura sensazione tattile, come pura sensazione di movimento, e come intreccio dell’una e dell’altra in qualsiasi proporzione. All’occhio è accessibile il modellato più audace, ma persino il puro modellato della luce.
Quando al buio stendiamo la mano per trovare la parete – la porta o l’interruttore – l’attività della nostra ricerca si trattiene con sforzo particolare intorno all’ingresso, perchè altrimenti rischieremmo di farci del male o di rompere qualcosa nella stanza. Facciamo un grande sforzo, forse persino più grande di quanto richiedano movimenti ampi e bruschi, e tuttavia questo sforzo non è indirizzato verso il mondo esterno, ma verso noi stessi, per trattenerci – per trattenere la nostra irruenza.
Gesti e movimenti più ampi e più veloci di quanto richiedano quelle condizioni testimoniano non una sovrabbondanza di forze, ma un’impotenza interiore: infatti la forza di volontà è ancora sufficiente per lo slancio, ma non lo è più nel trattenerlo e limitarlo.
Il gesto trattenuto e lo sfioramento attento contengono inevitabilmente in sè la potenzialità di uno sforzo ampio e impetuoso, e persino uno sforzo ulteriore che frena questa potenzialità. Quando la volontà si indebolisce, sotto l’effetto di droghe, per una malattia, per delle emozioni, lo sforzo che ci trattiene non è sufficiente e i movimenti ci conducono a conseguenze imprevedibili.
Toccando la realtà senza deformarla, senza esercitare pressioni, senza interferire – Il tatto è in questo modo una passività attiva in rapporto al mondo. E’ Visione. In esso prende dei piccoli frammenti – a forma di macchia – della realtà, delle sue parti che per la loro piccolezza si considerano senza una loro forma, e che perciò rappresentano soltanto il materiale, soltanto i mattoni della creazione del mondo sensoriale.
Questi frammenti, queste macchie, sature di contenuto sensoriale ma informi in se stesse e tali da non definire una forma, sono le tracce dei nostri sfioramenti della realtà.
Noi tocchiamo il mondo con singoli sfioramenti e ciascuno di essi produce nella coscienza una macchia: l’impronta della nostra passività attiva. Mentre la Linea è il segno o il comandamento di un’attività obbligata – la Macchia tattile non è segno, perchè non indica un’attività necessaria, ma offre da sè un frutto colto dal mondo, è di per sè un dato sensoriale, medium principale dello sfioramento pittorico, fotografico, filmico, scultoreo. Sottolineando che la conquista del superfluo genera un’eccitazione delle forze più intensa della conquista del necessario: l’uomo è una creazione del desiderio, non una creazione del bisogno.
La logica della creazione artistica non segue quella delle immagini illusorie. Tutt’altro: si sconvolge la consuetudine paralizzante e narcisistica per permetterci di credere (di nuovo) nelle possibili interazioni del singolo individuo nel sistema mondo – non sviluppandosi attraverso la linea come attività e direzione obbligata – il tempo è pur sempre reversibile: spesso scoprendo qualcosa che abbiamo già vissuto.
Facciamoci poche illusioni:
Quello Spazio di tempo brevissimo che passa tra il momento in cui l’immagine si forma nella rete neuronale del cervello e il momento in cui ci rendiamo conto che quell’immagine siamo noi, è il momento degli specchi, è il momento del gioco del Doppio, è il massimo di conoscenza al quale possiamo aspirare.
E’ quando ci rendiamo conto di essere una cosa
Superato il primo stupore di fronte al fenomeno, l’uomo non si ritiene soddisfatto di un’osservazione di intensità sostenuta ma relativamente superficiale.
L’uomo in procinto di diventare tale si accanisce, non demorde.
Il fenomeno è vissuto come una sfida. La curiosità è mobilitata al massimo. La posta in gioco è alta: si tratta di passare dalla curiosità percettiva alla curiosità epistemica.
Non ci immedesimiamo più nella cosa rispecchiata. Assumiamo la capacità di produrre immagini come utensili, costrutti di rappresentazione visiva del reale.
C’è una trasformazione che avviene in un soggetto quando egli si appropria della propria immagine.
Il piacere dell’appropriazione di un oggetto tramite la sua immagine speculare ha avuto una funzione generativa rilevante nello sviluppo del nostro impianto cognitivo. Un elemento costante nella sempre rinnovata necessità, per tutti noi, bambini e adulti, di costruire una nostra rappresentazione del mondo.
Se la vista è Il senso che permette – per eccellenza – di rendere conto della verità delle cose – L’occhio diventa un apparecchio ottico tra gli altri, che possono aggiungersi ad esso per accrescerne il potere, ma senza modificare l’economia del mondo percepito.. Almeno finchè l’immaginazione si manteneva nella prospettiva dell’ottica geometrica creata da Descartes – c’era insieme omologia e continuità tra l’occhio e il dispositivo ottico destinato ad accrescerne la potenza.
Tutto cambia – la rivoluzione ha inizio con Kant – quando l’uomo non è più percepito come un essere che prende conoscenza da un mondo retto dalle leggi dell’ottica, ma come un essere che riceve, attraverso i diversi sensi, messaggi di cui raccoglie e interpreta i dati, in modo da costituire un’immagine del mondo che richiede la partecipazione di tutto il suo essere.
L’occhio, allora, non è un apparecchio ottico che trasmette al cervello immagini che esistono così come sono all’esterno.
Ma è uno strumento di codificazione e decodificazione che trasmette informazioni le quali hanno continuamente bisogno di essere interpretate e la cui interpretazione varierà totalmente a seconda della natura dei segnali ricevuti e dalle disposizioni interne dell’essere che le riceve.
Da qui l’idea che aggiungendo al corpo – occhio un apparecchio che trasforma la natura di tali segnali, o meglio, rendendo l’occhio stesso recettivo a nuovi segnali, non ci si limiterebbe a modificare l’aspetto delle cose, a farle vedere più piccole o più grandi o deformate, ma si modificherebbe radicalmente l’essere-al-mondo del soggetto.
“Non somiglierete allora a un romanzo fantastico, vivente, invece che scritto?”
scriveva Baudelaire (in Paradis Artificiel)
I dispositivi ottici, che si tratti dello specchio, dell’inquadratura, della prospettiva, del rilievo, della luce, di un arco o in senso più ristretto della visione attraverso uno strumento determinato, non hanno soltanto rapporto col soggetto e col suo desiderio, ma col funzionamento del processo creativo come “macchina per far vedere“.
Questa convivenza tra l’immaginario e l’ottica si presta ad una forma di pedagogia dell’immaginario dove il superamento dei limiti, la messa in comunicazione di spazi incompatibili, la manipolazione delle dimensioni e delle distanze, la creazione di doppi artificiali o di copie, il magistero dell’illusione e la messa in discussione delle sue magiche illusioni danno luogo a una sperimentazione intellettuale di un’intensità e di un’arditezza particolarissime.
Ed è proprio questa esigenza di comunicare un progetto, di soddisfare il desiderio di una committenza di vedere in anticipo che è all’origine della professione di architetto. Insomma: l’architetto nasce come visualizzatore. Visualizzatore di opere monumentali. E’ in questo periodo che diventano sempre più sofisticate le tecniche di raffigurazione grafica al servizio del progetto edilizio.
Ma la creatività progettuale si è sviluppata nel contesto di un nuovo universo di modellazione – se si pensa che l’uomo stesso sta diventando oggetto di modellazione.
In realtà già da tempo le capacità intellettive, cognitive e sensorie hanno cominciato a essere replicate, ossia modellate:
Nel momento in cui la credenza sta per scomparire o è appena scomparsa l’immaginario è investito con maggior forza, in quanto beneficia ad un tempo dell’effetto di liberazione prodotto dall’adozione di una concezione razionale del mondo e del vuoto effettivo che provoca allo stesso tempo un passaggio obbligato verso una sospensione del reale.
La facoltà di cui è dotata l’immagine ottica con tutti i suoi derivati – di giocare a un tempo sulla credenza e la non credenza, di installare a livello percettivo un’incertezza che è fatta a un tempo di adesione e di rifiuto, spiega l’utilizzo come modello di quella strategia del nascondere/far vedere che conferisce al racconto-immagine tutta la sua forza di penetrazione nell’inconscio del fruitore.
Ma è il meccanismo stesso attraverso cui questi fantasmi vengono alla luce e le vie attraverso le quali si trasformano in testo, in artefatto fino alla più nitida scultura di sè a rivelarsi come fonte di godimento per gli altri: oggetti di cultura.
Ma come si riesce a scoprire, inventare o spiegare qualcosa tramite la raffigurazione?
Il disegno come tecnica di modellazione – in particolare il disegno come progettazione (di sè) si manifesta al contempo come disegnare durante il progettare e progettare durante il disegnare. E’ questa compresenza interagente fra il mezzo (disegno) e il fine (disegnare) che consente di avanzare verso la soluzione cercata e talvolta solo trovata.
Nessun aspetto della vita risulterà attutito: come momento centrale della formazione – accanto alla capacità di contenuti della propria esperienza, senza lasciarli scivolare, ma raccogliendoli nella propria solida individualità vi è l’esercizio dell’attenzione. Il saper governare, oltre che possedere questa ricchezza, provvede ad articolare la totalità piena, ma indeterminata dell’intuizione.
Possiamo allora sviluppare l’abilità di fare quello che vogliamo senza doverci esercitare
Quando facciamo la cosa giusta sin da subito non avremmo fatto che un esercizio. Questo non è imparare.
Il mondo dell’espressione: un sopra-mondo umano, terra di nessuno, dove l’agire è lasciato dietro di sè e la visione sciolta da legami.
Per contenuto di realtà è quanto di più concreto; nell’arte per esempio, si deve sempre esserci, subito, senza introduzione, senza spiegazioni, senza premesse: iniziare ad esserci – pura esistenza.
Il reale non è qualcosa che si deve raggiungere. Il falso si raggiunge. Il reale non si coltiva, non si realizza, si scopre. Esiste già!
Quando osserviamo con occhi liberi da pregiudizi la vita si mostra per quella che è, senza interpretazioni. Allora possiamo percepire un intervallo. Un pensiero se ne va, e prima che ne arrivi un altro, c’è una pausa, un intervallo. In quell’intervallo accade il nulla. In quell’intervallo iniziamo a vedere. L’ intuizione di quel momento è il sentire di un’esistenza autentica. Allora qualsiasi momento o situazione sono in grado di trasformaci perchè le vere energie represse ora affiorano. Sono energie primordiali, animali. Sono il nostro passato.
Parliamo di una falda primordiale, primaria. Il che non significa propriamente antica, anche se antica lo è di certo. Le relazioni simboliche primordiali o primarie sono ancora con noi e sono ancora nascostamente costitutive del nostro modo d’essere e d’esperire – sebbene – per le opinioni del nostro intelletto – esse non sono più in primo piano. La nostra cultura, di fatto, le ha emarginate, pur continuando a nutrirsene.
Solo da alcune generazioni, condizioni che si ripetono di un avvenimento vengono chiamate causa (accertata sperimentalmente, ‘prova’) o ancora – si collegano punti come su uno stesso piano cognitivo. Per l’uomo primordiale questo criterio del ripetersi, come la ricerca logica non esiste: egli coglie la coincidenza di due eventi dal punto di vista temporale-sensibile (animale e pioggia – ala di uccello e morte).
A lui basta questo, corrisponde alla sua tendenza all’associazione, al suo bisogno di collegare. Da qui si forma il tesoro della sua esperienza.
Ci sono stati d’animo e cognizioni che è possibile esprimere in parole già esistenti.
Ci sono stati d’animo e cognizioni che è possibile esprimere solo in parole che non esistono ancora.
Se si prende la seconda strada si va incontro a conflitti. Insegnanti, politici, psichiatri si fanno avanti. Perciò deve cimentarsi nell’impresa solo colui al quale è dato di farlo.
L’arte ha come premessa che chi la produce sappia che cosa può e che cosa non può. Ci sono anche colpi di fortuna, ma non contraddicono quanto sopra come massima. La genialità che proviene da qualcosa che non siano i mezzi di cui dispone per esprimersi è dilettantismo.
Gauguin scrive da qualche parte a proposito di Van Gogh: ‘Ad Arles ogni cosa – banchine, ponti e navi, il Sud tutto intero – divenne per lui Olanda’
In questo senso, per il lirico tutto quello che accade diventa Olanda, cioè – parola:
radice di parole, sequenza di parole, associazione di parole; vengono psicoanalizzate sillabe, trapiantate consonanti.
Per lui la parola è reale e magica, un totem moderno.
Per un certo aspetto della sua fenomenologia, l’arte è un fenomeno di liberazione e distensione, un fenomeno catartico, e tali fenomeni hanno i più stretti rapporti con gli organi – le cui minacce sono regolate e respinte da impulsi centrali molto più di quanto si ritenesse sin ora; e che l’arte sia un impulso centrale e primario non c’è alcun dubbio. Ma gli effetti sulla longevità dei nostri organi non sono che una conseguenza di uno stato d’essere al quale non daremmo mai l’etichetta di ben-essere.
Che cos’è in realtà la vita stessa?
Che cosa di essa deve essere migliorato? La sua fisiologia o la sua sfera affettiva? L’esistenza produttiva o quella pensante? Vita. E’ una parola così generica. Eppure qui si trema: è l’ultimo puntello di fede del momento presente, del nostro ambito culturale. E’ un residuo del biologico Ottocento quello che obbliga il mondo contemporaneo a lottare per ogni vita, anche per un prolungamento minimo, per ogni ora, con iniezioni e bombole d’ossigeno. La cura della vita che noi ci aspettiamo non è un’esigenza universale, antropologica.
Solo nello spazio di certi gradi di latitudine, essa è diventata il concetto determinante e fondamentale davanti al quale tutto si è fermato, l’abisso nel quale, nonostante si trascurino altri valori, tutti si gettano ciecamente, si trovano solidali e tacciono commossi.
Al portatore d’arte, statisticamente asociale, non interessa.
Vive solo per il suo materiale interiore, per esso raccoglie in sè impressioni, se le tira dentro, così profondamente dentro di sè fino a toccare il suo materiale, sommuoverlo e provocare delle scariche. Poco interessa l’azione in superficie: egli è freddo, il materiale va tenuto freddo, egli deve dare forma ai sentimenti, alle ebbrezze a cui gli altri possono umanamente abbandonarsi, e ciò significa indurirli, raffreddarli, conferire stabilità a ciò che è molle.
Guardiamo il cammino percorso fin qui. Un cammino lungo millenni: tutta l’umanità vive di alcuni autoincontri, ma chi incontra se stesso? Solo pochi. E sempre in solitudine.
L’arte non migliora, ma fa qualche cosa di più decisivo: modifica.
Può trattarsi di un’essenza che non migliora l’esistenza del singolo uomo ma lo intensifica e lo potenzia. Non ha ripercussioni sulla storia, se è arte pura, non ha ripercussioni terapeutiche e pedagogiche, agisce in altro modo: annulla il tempo e la storia, la sua azione si esercita sui geni, sulla massa ereditaria, sulla sostanza – un lungo cammino all’interno.
Il suo nucleo sprigiona un’energia frantumante ma la sua periferia è angusta – non tocca molto, ma su quel poco il contatto è incandescente. Tutte le cose si capovolgono, tutti i concetti e le categorie mutano nell’istante in cui vengono considerati sotto l’angolo visuale dell’arte, in cui essa viene posta in confronto con loro, loro con essa.
L’arte suscita un torrente laddove tutto era indurito e torpido e stanco, un torrente che resta confuso e incomprensibile ma diffonde germi su rive ridotte a deserto, germi di felicità e germi di dolore. L’essenza dell’arte è perfezione e fascinazione: dove vivono a sufficienza sostanze di passione, natura ed esperienza tragica.
Se non tremo, come la vipera nella mano del domatore di serpenti, sono freddo. Tutto ciò che ho creato di accettabile è sorto così – Delacroix –
Non si può dire che la rapidità sia un valore in sè: il tempo nel linguaggio può essere anche ritardante, o ciclico, o immobile. In ogni caso è un’operazione sulla durata, un incantesimo che agisce sullo scorrere del tempo.
La tecnica della narrazione orale nella tradizione, ad esempio risponde a criteri di funzionalità attraverso l’economia espressiva, il ritmo, la logica essenziale – trascura i dettagli che non servono ma insiste nelle ripetizioni. Il piacere di ascoltare storie sta anche nell’attesa di ciò che si ripete: situazioni, frasi formule. Gli avvenimenti ‘rimano tra loro’.
La rapidità e la concisione piace perchè presenta una folla d’idee simultanee o che vengono percepite come tali in una abbondanza di immagini, pensieri, sensazioni che non è possibile abbracciarle tutte o pienamente ciascuna.
Il tempo è una ricchezza di cui siamo avari – non per futile timore di un termine ineluttabile: la mobilità e l’immediatezza sono condizioni necessarie perchè le fatiche altrimenti interminabili, la focalità sulle immagini nel fondo del cratere dove si fabbrica instancabilmente l’oggetto rifinito in ogni particolare – diventino portatrici di significato. Come il raccontare sinteticamente e di scorcio porti ad un linguaggio tutto precisione e concretezza.
“Le arti che oggi hanno maggiore vitalità per il pubblico medio”, diceva Dewey “sono cose che esso non prende per arte”.
E si allude al ricco universo degli oggetti d’uso e alle infinità di forme d’espressione oggi presenti nei mass media. Un grande maestro della filosofia italiana, per esempio, ha parlato dell’artisticità diffusa come di uno dei fenomeni più caratteristici del nostro tempo.
Nella scelta delle forme brevi mi riferisco ad una particolare densità che permetta di solidificare il fulmineo percorso dei circuiti mentali che catturano e collegano punti lontani dello spazio e del tempo. Come l’intuizione istantanea che appena formulata assume la definitività di ciò che non poteva essere altrimenti.
Ho puntato sull’immagine e sul movimento che dall’immagine scaturisce naturalmente, pur sapendo che questa corrente dell’immaginazione necessita del linguaggio per muovere sul terreno esistenziale e vestire un’espressione necessaria, unica, densa, concisa, memorabile.
Trasparenza: mostrare nel duplice senso, poter vedere attraverso le cose. E’ l’ apparire – φαινόμενος – visibile ai sensi
Esiste un altro genere di prodotto artistico. In cui parole, frasi, segni metodi e messa in opera non vengono scelti per la loro originalità o con il chiaro intento di suscitare stati d’animo o la loro forza evocativa.
Semplicemente servono a descrivere ciò che si sta vedendo, ciò che sta succedendo, senza involuzioni
E’ tutto in funzione della trasparenza. E’ il tipo di risultato in cui si preferisce il concetto fondamentale al subordinato, il segno comune all’insolito, la sintesi più che l’elaborata struttura.
Questo non significa che non ci sia nulla di subordinato o insolito e ricercato. Significa solo che vengono usati (parole e segni) unicamente quando il loro impiego serve alla chiarezza del risultato.
Il risultato è che il fruitore capisce immediatamente quello con cui si relaziona – sia che si tratti di un testo, sia un’opera d’altra natura). Sempre che la stessa sia fatta bene. In teoria, non ci si dovrebbe neanche rendere conto dello ‘stile’ – della presenza di un qualunque stile.
Potremmo paragonare tale tipo di approccio al vetro di una finestra: puoi vedere esattamente ciò che succede in strada – senza neppure accorgerti che c’è il vetro
Può un’artista reggere a qualcosa come un oggetto funzionale?
Eppure – le vetrate di grande valore artistico venivano create già nel terzo secolo a.C, mentre le lastre di vetro hanno cominciato a essere prodotte soltanto nel diciassettesimo secolo. In altre parole, ci sono voluti duemila anni per progredire dai vetri colorati che componevano vetrate preziose a qualcosa di così semplice e ‘nullo’ come una lastra di vetro priva di striature, opacità o bolle.
Strano che una cosa così semplice sia stata più difficile tecnicamente da fabbricare di una cosa ‘artistica’
Così è anche per la letteratura, come per ogni prodotto o gesto del fare umano. Invece davanti a molta arte, molta poesia, molto stile, tutti saranno pronti a lodare la straordinaria abilità dell’autore.
Ma non è detto che occorra minore abilità per un’opera chiara e semplice. Anzi, spesso è ben più difficile essere chiari che essere poetici: non è da tutti infatti, creare qualcosa di così limpido e lineare da apparire spontaneo e non studiato ad arte
Scrivere in modo che le parole siano un mezzo e non un fine – agire senza che lo scopo ricada sull’oggetto – comunicare senza enfasi – in modo che gli avvenimenti vengano assimilati immediatamente dal cervello come se lui stesso li stesse vivendo, è un’arte difficile e necessaria.
“Noi vogliamo estrarre da questo mondo un discorso, un racconto, un sentimento: o forse più esattamente vogliamo compiere un’operazione che ci permetta di situarci in questo mondo. Abbiamo a disposizione tutti i linguaggi elaborati dalle discipline più varie. Vogliamo estrarre il linguaggio adatto a dire ciò che vogliamo dire, il linguaggio che è ciò che vogliamo dire” Italo Calvino
Fuori, prima dell’Inizio c’è o si suppone che sia un mondo completamente diverso: il mondo non scritto, nè disegnato, nè rappresentato. Il mondo vissuto e visibile.
Gran parte di questo mondo si dissolve immediatamente come i sogni che non lasciano traccia nella memoria: storie informi, casuali, confuse, senza principio nè fine.
Nell’Inizio avviene il necessario distacco dalla potenzialità illimitata e multiforme per incontrare qualcosa che ancora non esiste ma che potrà esistere solo accettando dei limiti e delle regole.
E siccome la vita è un tessuto continuo, qualsiasi Inizio è arbitrario, perfettamente legittimo di cominciare l’opera in un momento qualsiasi – purché – dall’infinita abbondanza degli eventi sensibili possano darsi zone d’ordine, porzioni d’esistente che tendono verso una forma: punti privilegiati da cui sembra di scorgere un disegno, una prospettiva.
L’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili, hanno un aggettivo che non esiste nella lingua inglese: Icastiche. Contro un automatismo che tende a livellare l’espressione, a diluire i significati, a spegnere ogni scintilla scaturita dall’attrito dello sguardo verso l’incomprensibile.
Ogni volta l’Inizio è questo distacco dalla molteplicità dei possibili, in modo che renda visibile le singole storie: una di queste minime porzioni in cui l’esistente si cristallizza in una forma, in cui acquista un senso, non fisso, non definitivo, non irrigidito in una immobilità mortale ma vivente come un organismo parassita del mondo reale (che appare ormai come sfondo).
Nei suoi limiti, saremo spinti ad esplorarne le profondità.
A chi non desidera che i fiori, vorrei mostrare la primavera che vive nei boccioli sulle colline coperte da una coltre di neve. Rikyu
Anche nelle manifestazioni più semplici abbandoniamo il limitato spazio euclideo della nostra coscienza per gettare uno sguardo nelle capricciose volute della vita con i nostri occhi ciechi.
All’apparenza si mostra come una ingenua osservazione della vita: nessuna introduzione speciale di materiale, nessun gioco di pedali, nessuna intenzionale ostentazione avvertirebbe l’occhio. Dovrebbe apparire come un piccolo mondo, infinitamente più limitato del mondo reale. In realtà una semplice immagine – parassita del mondo reale mette tra parentesi la massima parte delle cose che sappiamo del mondo: poichè non possiamo uscire dai suoi limiti, siamo spinti a esplorarlo in profondità.
La precisione e la lucidità della visione delle condizioni del compito aiutano a trovare senza sperimentalismi un equivalente esatto dei propri pensieri e delle proprie sensazioni.
Questa lucida visione – diamantea per la sua incorruttibilità – nei limiti delle sue sfaccettature ci da la possibilità di rigettare tutto ciò che è inutile, estraneo, non indispensanile – in modo che si risolva da sè il problema di ciò che è necessario e di ciò che contraddittorio al nostro progetto.
Questi volontari occhi – cristallizzati come pietre preziose – limitano il campo della vista organica ma ci permettono di creare una forma autentica: vivente testimonianza umana capace di emozionare e interessare lo spettatore.
Soltanto quando sappiamo tuffarla nel torrente della realtà che fugge via impetuosamente si concretizza in un istante raffigurato, nella sua irripetibilità e unicità emozionale e di tessitura. Un organismo compiuto in grado di svilupparsi secondo le proprie leggi.
Altrimenti è destinata ad invecchiare e morire ancor prima di nascere.
Ancora una volta – non si tratta di una registrazione naturalistica dei fatti – ma della capacità di far passare per osservazione la propria percezione dell’oggetto
Proveremo allora un autentico piacere avvertendo che non siamo in grado di esaurirlo, di afferrarlo fino in fondo. L’immagine autentica fa si che chi la percepisce provi contemporaneamente sentimenti complessissimi, contraddittori, che a volte persino si escludono a vicenda.
Insomma,
l’immagine non è questo o quel significato espresso da un autore, ma un mondo intero che si riflette in una goccia d’acqua. In una goccia d’acqua soltanto.
Che cosa significano ad esempio, in senso funzionale, le immagini di Leonardo da Vinci, di Mozart o di Edgar Allan Poe? Esattamente nulla. Di per sè stanno a significare quanto siano autonome.
Esse vedono il mondo per la prima volta, come se non fossero appesantite da nessuna esperienza precedente. Il loro sguardo indipendente è simile a quello di chi fosse appena giunto in esso. Come in un sogno in cui ci si trova dentro – e a un certo punto ci si accorge e si decide che quello che ci accade è un sogno. Certo, come diceva Novalis,
“siamo prossimi al risveglio quando sogniamo di sognare”