Open/Close Menu Maria Giovina Russo
ritmo

La pittura a inchiostro di china, con le sue linee fluide  non si cristallizza perfettamente, ogni linea è presto dissolta. Alla base di quest’arte – di cui l’esecutore è il fondamentale destinatario – c’è il ritmo e c’è la sua traccia immediata.

La struttura lineare non assume mai un profilo plastico. Quest’arte del pennello non conosce la prospettiva rigorosa, centrata in un unico punto, ma suggerisce lo spazio con una sorta di visione progressiva:

Contemplando una pittura verticale, sospesa all’altezza dello spettatore, l’occhio s’inerpica dal basso in alto per i vari gradi di lontananza; nelle pitture orizzontali che vengono srotolate via via – lo sguardo segue lo stesso movimento

Questa visione progressiva non separa interamente lo spazio dal tempo – è più vicina alla realtà vissuta di quanto non lo sia la prospettiva artificiosamente fermata su un unico punto di vista

 

” Il mondo non viene rappresentato come un tutto compiuto, ma attualizzato nell’istante fermato in una sensazione di eternità “]  che la razionalità copre ordinariamente con la sua continuità soggettiva. Allora certi rapporti, prima inosservati tra gli esseri e le cose rivelano la loro unità essenziale. Gli stati fisici meno solidificati sono più vicini a quella realtà non-manifesta che è sostrato dei fenomeni.

 

In realtà chi lo pratica sa benissimo che è un’arte dura è difficile da apprendere se si vogliono raggiungere risultati duraturi e apprezzabili. L’esercitarsi c’entra relativamente: quel che invece conta è la coordinazione delle varie parti del corpo, l’uso corretto di questo o quel distretto muscolare e osseo.

Il sogno  è stato quello di riuscire a codificare un metodo, una tecnica, in grado di trasmettere a se stessi una mappatura dell’azione, seguendo la quale si potesse arrivare alla perfetta esecuzione del gesto. Un tale compito non è facile, si tratta di tradurre in segni, ideogrammi, parole e scrittura sensazioni e movimenti, a volte infinitesimali, compiuti da decine di muscoli, ossa, tendini e terminazioni nervose del corpo. Nel corso dei secoli questo compito è stato intrapreso da molte più persone di quante possiamo immaginare e la letteratura delle civiltà più avanzate dell’antichità. Attraverso l’arte dell’ arcieria come del kyudo e al tempo stesso quella della parola scritta – persiana, araba, cinese ecc, ci tramandano numerosi trattati.

E ‘un ritmo che ha avuto inizio nel lontano passato.

Si tratta di un ritmo comunicativo, antico e fondamentale. E ‘iniziato con la comunicazione intima tra madre e figlio, la cantilena.  Si esprime attraverso la danza e l’amore, attraverso l’ esercitazione militare, attraverso il rituale, attraverso l’arte

 

 “la più grande perfezione deve sembrare imperfetta, ed allora sarà infinita nel suo effetto; la più grande abbondanza deve sembrare vuota, e allora sarà inesauribile nel suo effetto”.

Tao Te King.

immediate signs

 
Ph Giovina Russo

La coscienza corporea si riflette nella scultura iconografica

Lo scultore indù, come gli architetti e i maestri scalpellini durante il medioevo sono tenuti a conoscere le regole della danza culturale, che è la prima delle arti figurative perché ha come mezzo l’uomo stesso. Così la scultura si riallaccia a due arti radicalmente diverse: l’architettura – che è essenzialmente statica e trasforma il tempo in spazio, mentre la danza trasforma lo spazio in tempo assorbendolo nella continuità del ritmo. Non stupisce che questi due poli dell’arte indù abbiano generato l’immagine di Shiva danzante.

Nell’arte romanica  invece – una delle più potenti immagini dal punto di vista degli effetti fisiologici e profondi sul nostro sistema nervoso autonomo è l’ Icona. Questa ha la funzione di spostare il flusso dello sguardo verso l’interno. Lo sguardo coglie un’immagine archetipica, che non ha oggetto. La struttura della composizione – il colore, il segno, la qualità delle stesure della materia composta ha lo stesso, unico scopo – quello di azzerare il campo della visione esterna. Lo sguardo ha quasi un arresto, l’oggetto scompare, il movimento prosegue all’interno. I patriarchi hanno fatto della teologia visiva una scienza applicata.

Nell’icona l’immagine è statica e stilizzata. Il movimento è concepito come una rotazione intorno a un’asse immobile; riposa per così dire nella sua stessa estensione, non è affatto rigido – ma nello stesso tempo il suo ritmo è contenuto in una forma statica, come le onde di un liquido in un vaso: il tempo è così integrato nell’atemporale. Sembra un motivo sufficiente per definirla la porta regale.

L’esercizio artigianale della pratica artistica era frutto di una disciplina somatica praticata anche dai maestri scalpellini – ed è ben documentata. Questa rifletteva la qualità del modellato. Le pratiche del culto di Giano avvenivano in un gymnasium, una sorta di palestra in cui si apprendeva il simbolismo che sarà ereditato dai collegia fabrorum, per poi passare alle corporazioni artigianali del Medioevo. Quelle perfette immagini geometriche erano evocate dal corpo stesso dell’artista artigiano. Per richiamarne una, la sezione aurea – nota anche come la coscia d’oro. Ma l’elenco sarebbe infinito.

Ph Giovina Russo

iconic sculpture

 

Per l’artista che opera in questo modo, la maestria è considerata il fine della realizzazione artistica o artigianale – e non il contrario. La pratica artistica è lo strumento per affinare il possesso perfetto e spontaneo dell’arte, il talento pratico coincidente con uno stato di libertà e di sincerità interiori.

Oggi sappiamo che durante il movimento agiscono due controllori neurali indipendenti, uno che supervisiona la posizione ed uno la forza.

Spesso il sistema che controlla la forza si fida ciecamente del suggerimento visivo che la genera. In un piccolo gesto quotidiano, ad esempio – possiamo ricordare tutti l’esperienza del sollevare una busta di latte, imprimendo una eccessiva forza alla presa non potendone prevedere il contenuto (vuoto). Lo sguardo anticipa, misura, sente e comunica al corpo il grado di forza da imprimere verso l’oggetto. Sia che si tratti di un’azione meccanica, sia che comporti il puro vedere – percepire.

La compensazione anticipativa in compiti instabili può avere successo a condizione che  l’orizzonte temporale critico sia ampliato.

Un’immagine, uno stato corporeo può cambiare completamente la percezione temporale durante l’azione

 

lo scopo è proprio quello di aumentare il tempo di caduta naturale –  come allargare le  braccia o tenere dei lunghi bilancieri, questa apertura alare  consente  più tempo al modello interno di generare appropriati aggiustamenti stabilizzatori.

La visione sovrasta la propriocezione quando entrambe sono presenti degradandone quest’ultima. Quando nè la visione nè la propriocezione sono disponibili, il controllo motorio è ancora possibile se la configurazione iniziale dell’arto è propriocettivamente nota

 

Possiamo allora registrare in questa occasione le basi di una configurazione ideale, diversa per ognuno – ma che ha una forma universale alla base che consente  l’apertura alare che precede ogni esercizio che conduce alla maestrìa.

occhi e psiche

Gli occhi sono il grande portale della psiche. Qui l’anima esce ed entra dal corpo, come un uccello che vola via e poi torna

Esiste un modo sensoriale del vedere. E’ una vista acuta e viva che guarda, che osserva – ma che non cede mai all’oggetto esterno: come un gatto che osserva la sua preda. Questo è l’occhio che guarda pieno di potenza e che conosce il puro desiderio dell’estraneità dell’oggetto che osserva. Allora siamo in tutto e per tutto in noi stessi.

Questa non è quella che noi chiamiamo vista

 

Quegli animali come come gatti, lupi, falchi che vivono principalmente spinti dai grandi centri della volontà sono, nel senso che noi diamo al termine, quasi privi di vista. In loro la vista è affinata o ristretta fino ad un solo punto: l’oggetto di preda. E’ esclusiva. Non vedono altro. Eppure vedono impensabilmente in lontananza, con acutezza imprevedibile.

In noi la vista diventa imperfetta perché guardiamo troppo, assistiamo a troppe cose. La mancanza di vista, oscura e splendente del selvaggio attento, la ristretta visione del gatto, il singolo punto di vista del falco: non abbiamo più nulla di tutto questo

 

La vista è il meno sensoriale di tutti i sensi. Noi ci sforziamo di vedere. Vedere ogni cosa, ogni cosa attraverso l’occhio, in un solo modo. Guardiamo eternamente all’esterno, senza trattenere nulla.

Diventiamo miopi, quasi per autoproteggerci

 

Abbiamo il potere della repulsa, dell’inibizione, di scegliere e filtrare ciò che vediamo. Possiamo vedere con l’eterna visione critica moderna, analitica – e possiamo vedere come il falco – che guarda solo quel punto concentrato dove batte il cuore animale della sua preda.

occhi e psiche, 2013 Ph. Maria Giovina Russo

occhi – il portale della psiche, 2014 Maria Giovina Russo

Il controllo della vista e un uso più funzionale ai nostri scopi, porta ad un miglioramento globale e delle nostre capacità d’apprendimento – e della nostra azione nel mondo – nella forma che sapremo dare al mondo.

A questo scopo, è necessario recuperare la  dissociazione dell’informazione di posizione da quella di forza, che in realtà è gestita dalla vista. Avete mai avvertito come lo sguardo misura il peso di un oggetto a noi familiare, ad esempio come quando sollevando una busta di latte apparentemente piena ci accorgiamo del suo reale contenuto solo dopo averla afferrata?

Un atto compiuto scivola immediatamente nel passato, dove diviene immediatamente immune e irraggiungibile

 

Invece possiamo imparare a gestire il nostro capitale di motivazione prima di permettere che l’azione avvenga. L’inibizione dell’azione fisica mentre si sta formulando il progetto d’azione è uno dei più efficaci mezzi d’apprendimento.

E’ necessario imparare questa dissociazione della direzione di se dall’agire, fino a che la dissociazione diviene così familiare e rapida da essere praticamente simultanea con l’azione. A quello stadio, la nostra azione è spontanea senza resistenza interna e senza motivazioni parassitarie

 

La vista infatti definita come la regina dei sensi, ´e sicuramente la più importante sorgente informativa esterocettiva, permettendo di definire la struttura fisica dell’ambiente e di fornirci le informazioni sul movimento di oggetti nell’ambiente. Allo stesso tempo, è anche la più grande fonte di informazione interoccettiva, in quanto permette il riconoscimento dei nostri stessi movimenti nell’ambiente.

Il processo creativo basa la sua funzione primaria sull’abilità fisiologica dell’essere umano di estrarre, decodificare e condividere questi stati fisiologici in forme e fenomeni.

In natura, le api estraggono il modello pentagonale del favo sullo stesso modello. Ma l’uomo ha elaborato un linguaggio  complesso corpo-immagine che ha la sua più alta evocazione in tutta l’arte sacra sin dai primi segni geometrici incisi.

Ph Giovina Russo

see the sensory


Archery-icon

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Ph. Giovina Russo

by M Giovina Russo

l’immagine sta al volto come la somiglianza sta allo sguardo

Il volto è ciò che vediamo nell’esperienza diurna, ciò che ci svela la realtà del mondo. E la parola volto può applicarsi non soltanto all’uomo, ma anche agli altri esseri e realtà, quando è chiaro il rapporto con essi, così parliamo del volto della natura ecc. Si può dire che il volto è quasi sinonimo della parola manifestazione, è appunto la manifestazione della coscienza diurna. La percezione della soggettività e dell’oggettività nel volto non è chiara alla nostra coscienza.  Questa sua evanescenza è la base dei processi conoscitivi con cui opera ad esempio il ritrattista (ma per esteso, chiunque estragga dei modelli dal volto con cui si manifesta il mondo). Lo schema, il modello è uno tra i possibili in cui inquadrare il volto, mostrando non soltanto, o meglio non tanto l’ontologia di ciò che l’artista ha ritratto, quanto l’organizzazione conoscitiva dell’artista stesso, il mezzo dell’artista. Viceversa la sguardo è appunto la manifestazione dell’ontologia.

L’immagine si distingue dalla somiglianza come qualcosa di attuale, manifesto – per quanto di natura evanescente. Mentre la seconda come potenza, possibilità di perfezione e forza di conformare tutta la personalità in immagine. Cioè la possibilità che l’immagine più profonda e  che si manifesta nel continuo processo vitale, nostro intimo patrimonio, s’incarni nella vita, nella personalità e in questo modo si mostri in volto.

Allora il volto assume la dignità della sua struttura profonda, ne divine la soglia accessibile – non in forza di motivi esteriori e conformati al tempo a cui appartiene, transitando – ma nella propria realtà sostanziale e secondo le leggi profonde del suo essere particolare.

Allora ogni cosa casuale, tutto ciò che nel volto non è il volto stesso ma maschera, ora è scartato, respinto dalla sorgiva, erompente attraverso la scorza materiale, dell’energia dell’immagine di sè: il volto è diventato sguardo. Lo sguardo è somiglianza dell’immagine altrimenti inafferabile di sé, resa presente sul volto, che si fa Archetipo. Senza parole il volto testimonia gli aspetti di un mondo prima invisibile, inesprimibile a parole, con il suo stesso aspetto.

Se pensiamo che in greco sguardo si dice idea, fonte di tutte le immagini – allora, rifacendo il cammino all’inverso, dall’idea allo sguardo, rendiamo il significato di quest’ultimo del tutto trasparente.

Rinnovarsi, modificare l’immagine dell’esistenza, la legge, la forma operante suggerisce l’impossibilità di conformarsi, di adagiarsi su schemi comuni al tempo cui si appartiene, nella sua attuale condizione.

Il passaggio della forma, la trasformazione del corpo, si ottiene col rinnovamento della mente. Sintomo dell’avvenuto rinnovamento sarà il senso della volontà: una raggiunta sensibilità per percepire la volontà, propria di quello che qui, chiamo il corpo nascosto. Ciascuno ha una certa misura di convinzione di cose invisibili, che risiedono in un luogo che non ha spazio, nè tempo, sin tanto che dal corpo non riluce lo sguardo. Allora si, noi siamo quello spazio e quel tempo in cui l’invisibile si fa visibile.

L’orientamento dell’attenzione è indispensabile condizione dello sviluppo della particolare vista capace di vedere nello spazio trasparente senz’aria. Ed è quanto l’uomo esercita nel processo artistico – magico. Così il principiante in geometria deve visibilmente rivelare con un tratteggio marcato, che colpisca l’occhio, e con il colore – le linee e le superfici sulle quali poggia il peso dell’argomentazione. Ma quando l’attenzione è ormai elastica e non ha bisogno di impressioni esterne per concentrarsi su un oggetto  noto e in se stessa trova la forza di estrarre dalla realtà evanescente l’oggetto o il segno, anche se è disperso tra altri che possono colpire ma non sono utili alla comprensione, allora il bisogno di appoggi sensibili scompare.

Ph. Giovina Russo

face and gaze

vertigo and mirror

Manifestarsi e scorgere hanno un’unica radice:
In ebraico la Shekhina è la dimora:
il luogo in cui allo stesso tempo si scorge e ci si manifesta.

Vedere il Vedere altrui:  questa particolare sensibilità nello sguardo  si confronta con due limiti che è possibile sperimentare, la tentazione dello specchio e la vertigine.

Nello specchio, autoanalisi, nel narcisismo – ci si può rimanere bloccati a lungo, ipnotizzati dalla propria immagine, dall’ inesauribile ricchezza di dettagli che i propri occhi riescono a cogliervi. Nel vedere siamo autentici genî: scoprire, interpretare, risalire da un’espressione del volto ai più riposti segreti della personalità e dell’anima: tutto ciò dà un piacere incomparabile, e nulla può essere più dolce, del gustare questo piacere per sé soli, lasciandosi portare dal morbido vortice che si forma quando ci si specchia nel proprio vastissimo mondo. Uno specchio può divenire un mondo intero.

La vertigine poi.. quello sgomento da cui ci lasciamo prendere quando – volgendoci via dallo specchio, permettiamo al potente sguardo di esplorare il mondo intorno, e di vedere il vedere altrui. Il piacere che si prova è ancor più forte, il gusto della scoperta è addirittura travolgente: in brevissimo tempo si individuano i confini dell’immagine che gli altri hanno del reale e del possibile. E si superano, ci si avventura verso il nuovo, ma se ne avverte il panico.

Chi conosce questa vertigine vacilla a questo punto: abbandona, fugge, naufragando magari. Quasi temendo che se si osasse proseguire ci si dissolverebbe. È’ il modo di percepire il terrore del successo.
Scostarsi allora dall’ immagine che gli altri hanno di noi, come se fosse nostro dovere rassicurarli ed evitare che si facciano domande sul nostro conto.

E perché il permesso arrivi dal nostro cuore, si ha bisogno di una fiducia in se stessi d’un genere tutto particolare: non tanto nelle proprie qualità di cui già si ha avuto qualche prova, ma in ciò che di noi stessi non sappiamo o non capiamo ancora. Fiducia nell’ ignoto. Mettersi in gioco lasciandosi guidare dall’ispirazione, dalla passione, dall’intuizione fulminea: come una vela dal vento.

Ci sono cose che ci rendono decisamente difficile essere veri esseri umani, allora forse metà del compito dell’ arte è spiegare da dove nasce questa difficoltà, ma l’altra metà è drammatizzare il fatto che nonostante tutto siamo ancora esseri umani. O possiamo esserlo.

Questo non significa che il compito della ricerca artistica sia edificare o insegnare, fare di noi tante piccole persone da bene. Credo solo che una ricerca che non esplori quello che significa essere umani oggi, non è arte.
Quello che è stimolante e ha una vera consistenza artistica è  vedere come mai abbiamo ancora la capacità di provare gioia, carità: di vedere il vedere dell’altro per cose che non hanno un prezzo. E se queste capacità si possono far crescere.

Se sì, come e se no, perché.

M Giovina

me, vertigo and mirror

Ph. M Giovina Russo

Quell’equilibrio instabile che viene abbandonato in ogni azione e recuperato per la successiva è l’essenza della maturità umana quanto della bellezza.

l’artista apprende dai movimenti ascensionali, duplici, rovesciati, inclusivi – paradossali della forza esercitata dalla bellezza dagli effetti retroattivi, capaci di rimodellare il tempo, cioè di superare l’annullamento di un gesto perduto, di un atto compiuto. L’arte, la poesia la bellezza sono la forza che contrasta un destino già scritto e ne ribalta ogni ordine.

C’è così tanto da fare per rendere questo mondo più adatto per noi che non possiamo permetterci di consumarci in sterili lotte interne. Va fatto qualcosa per migliorare e cambiare l’educazione e il mondo che la determina. Ma per rendere possibile questo cambiamento, ogni generazione deve attuare qualcosa su se stessa  per liberarsi da quelle convinzioni che alimentano infelicità e impotenza, che sono i frutti di un insegnamento sbagliato e di apprendimento scorretto.

Troppo spesso, vogliamo cambiare noi stessi e al tempo stesso restare come siamo: è il risultato della convinzione di potersi tenere la propria consueta personalità e cambiare quegli aspetti del proprio comportamento che non amiamo.

un radicale cambiamento comporta sempre un cambiamento di atteggiamento mentale, del modo di proiettare l’azione, la voce, il respiro e lo sforzo muscolare.

Solo imparando a riconoscere e a districare motivazioni attraverso il fare esperienza del loro effetto sullo stato del corpo ci si può sbarazzare della compulsione e della meccanica sottomissione all’abitudine.

Quando rifiutiamo la naturale tendenza a cambiare, stronchiamo sul nascere qualunque trasferimento di apprendimento.

Non c’è altro modo di correggere e cambiare uno stato che non ci permette di essere l’autentica immagine che siamo, se non identificando ed estirpando la compulsività attraverso l’apprendimento della reversibilità.

La reversibilità si ottiene quando entriamo in uno stato di equilibrio instabile: la configurazione in cui un sistema ha la sua massima energia potenziale.

Sappiamo che (1) gli stati mentali si formano attraverso l’esperienza individuale della struttura corporea: il funzionamento cerebrale corrisponde a stati del corpo, e che (2) il controllo conscio ci mette in grado di dissociare dalla struttura esecutiva il funzionamento cerebrale – ci dà un mezzo potente e pratico per imparare attraverso l’attività mentale, mentre viene inibita la messa in atto degli impulsi corticali da parte della muscolatura.

Questa inibizione dell’azione fisica mentre si sta formulando il progetto d’azione è uno dei più efficaci mezzi d’apprendimento.

Un atto compiuto scivola immediatamente nel passato, dove diviene immediatamente immune e irraggiungibile

Possiamo invece imparare a gestire il nostro capitale di motivazione prima di permettere che l’azione avvenga. Ed è necessario imparare questa dissociazione della direzione di se dall’agire, fino a che la dissociazione diviene così familiare e rapida da essere praticamente simultanea con l’azione. A quello stadio, la nostra azione è spontanea senza resistenza interna e senza motivazioni parassitarie.

Quando invece la motivazione a riuscire è superiore alla motivazione ad agire, introduciamo fretta e sforzo, le azioni come i pensieri mancano di gradualità e coordinazione, si mobilizza tutta la propria energia e con eccessiva intensità, credendo che ciò assicuri il successo.

E’ nel potere trasformativo che opera l’esperienza estetica: la fisiologia dello stato di bellezza, quando il suo affinamento è capace di stabilire il contatto con la natura interna delle immagini che abbiamo del mondo e della nostra immagine che ne è sostanza e al contempo artigiana.

Tutti abbiamo occasionali, brevi momenti in cui sentiamo facilità, grazia e al tempo stesso, potenza nei nostri movimenti: siamo capaci di una aderente espressione di noi stessi. Vogliamo saper riprodurre questo stato quando lo vogliamo, come fanno alcuni, senza alcuna difficoltà. Tali persone sono rare, e siamo portati a pensare che loro abbiano qualcosa che noi non abbiamo, quando in realtà la sola differenza è che sanno regolarmente usare e mantenere un’auto direzione che sperimentiamo solo ogni tanto, e per brevi periodi.

Possiamo continuare a servirci dell’arte e dell’immenso bagaglio di immagini in cui siamo immersi come un bambino che vede un manico di scopa e ne fa un cavalluccio, scegliendo l’immagine minima necessaria per trasformare l’oggetto in giocattolo.. Oppure potremmo scegliere dove riporre la nostra attenzione.

Una volta che riusciamo a riconoscere ciò a cui diamo attuazione, cominciamo a sentire di controllare la situazione, e riusciamo a preservare la nostra serenità nonostante le avversità: ci troviamo nel limite potenziale delle nostre capacità.

Ph. M Giovina Russo

unstable balance

penumbra

Osserviamo la bellezza delle cose e delle persone quando sono in penombra: il buio all’interno di un grande ambiente è ben diverso da quello che c’è in un piccolo ambiente.

Per conoscere la nostra capacità, ciò che conteniamo, un primo passo è certamente quello di considerarci come volume. Recuperando lo spazio che occupiamo nel mondo e quello che conteniamo all’interno.

L’educazione, gli impedimenti che prestissimo ci creiamo per sentire meno pena e meno piacere, non sono i soli ostacoli allo sviluppo delle percezioni.

La nostra relazione con lo spazio  riduce ai minimi termini l’ampiezza del campo vitale. Come stretti in gabbie invisibili, poi come foglie tra le pagine di un libro, oggi, come immagini fugaci su uno schermo.

Uno dei maggiori danni subiti dalla nostra percezione è l’eccessiva esposizione alla luce artificiale, non solo perdiamo la percezione della rotazione del Sole e dei punti di riferimento temporali, ma non essendoci luce naturale  non c’è ombra:[bctt tweet=” il corpo non viene più modellato dal gioco continuo del chiaroscuro naturale”]. Il rilievo, la terza dimensione, la presenza nello spazio risultano appiattiti, ridotti.

[piopialo vcboxed=”1″]L’illuminazione artificiale ci sbiadisce, ci schiaccia e ci priva di quell’altra prova della nostra esistenza: l’ombra. [/piopialo] Preme anche sottolineare quanto una cultura tenda a privilegiare un senso piuttosto che un altro (in occidente è la vista) appiattendo tutto il resto – compresa l’esperienza sensoriale che il nostro corpo fa anche attraverso il vissuto di tanti piccoli piaceri.

penumbra

museo di storia personale

Molte donne si dicono pronte a tutto pur di avere un ventre piatto, che per definizione non possono avere: un ventre da ragazzo.

Questa immagine tanto vagheggiata di un addome piatto è ancora una limitatezza delle nostre percezioni: In realtà noi ci vediamo bidimensionali e non tridimensionali: vien fuori un’immagine fissa e senza peso, senza volume: come riflessa in uno specchio male illuminato o come una fotografia un po sfocata e spesso non troppo recente.

Tutte queste considerazioni non vogliono escludere che il nostro ventre necessiti di una riduzione o di un rassodamento: Il rimedio tuttavia non sarà il solito accanimento nel far lavorare solo i muscoli addominali: vedendo soltanto loro, attraverso una concezione frammentaria del corpo, molto spesso si riesce a danneggiare la regione lombare.

Certo, a furia di pedalare centinaia di volte riusciremo a rassodare il ventre – ma dato che gli esercizi ci obbligano ad inarcare la schiena che spinge il ventre in avanti, otterremo un grosso ventre sodo. Per di più, il rassodamento dura solo se non si interrompono gli esercizi, dunque solo se si continua a danneggiare la schiena.

Di fatto il ventre non merita tutte queste attenzioni: quello che è urgente è allentare le contratture della schiena: solo dopo aver sciolto i muscoli della schiena vedremo “sparire” l’eccessivo rilascio del ventre. La schiena è questa parte di noi stessi che ci è sconosciuta, perchè non ci è dato vederla nè quindi controllarla. Non sappiamo ancora cosa rivela di noi.

Qui l’attenzione è ancora sullo sviluppo delle percezioni non visive. Del resto gli occhi possono vedere solo ciò che hanno davanti.

 

Canaletto 1756

by M Giovina Russo

La maggior parte delle nostre idee del visibile non sono in rapporto con l’azione visiva: la consapevolezza del valore che ha al suo interno e la volontà di esprimersi attraverso questa.

Speculare deriva da speculum, che significa torre di vedetta e non specchioE’ avvistamento, segnalazione e controllo – soprattutto di uno specchio di mare.

Da questa torre l’inquadratura assume nel contempo un taglio innaturale – angolato – dall’alto in basso o viceversa, e inclinata lungo l’asse ottico, a realizzare un’immagine tutta costruita per linee oblique, priva di qualunque elemento di stabilità e distensione. I dettagli sono allontanati dallo spettatore, che non ha più bisogno di competenza o controllo sull’oggetto della visione.

Qui ci sono due termini assai rivelatori: allontanamento e controllo: ci dev’essere un sistema di monitoraggio che ne controlla il funzionamento, un sistema che  è celato all’utente finale (remove and control) L’arte è un modo di prendere distanza – e la attua attraverso la ritualizzazione. 

Creare le regole del gioco alle quali obbedire è una maniera di creare sensazioni e sentimenti e allo stesso tempo avere il potere di controllare tutto questo: è ciò che permette il rituale.

Allontanare vuol dire nascondere tutto ciò che mostra o rivela le fasi della produzione. L’artefice secondo questa antica esigenza afferma se stesso soltanto per mezzo del proprio stile e deve giungere- grazie ai propri sforzi – al punto in cui il lavoro elimina la traccia stessa del lavoro.
Un lavoro che elimina ogni traccia dello stesso lavoro sembra inconciliabile con questo mondo a due dimensioni, in cui l’abbozzo diventa equivalente al prodotto finale, dove si confonde l’esercitazione con la creazione.

Trasformare la traccia del proprio operato vuol dire manifestare l’apparenza di una modesta e ingenua osservazione della vita: paradossalmente nella nostra percezione si tramuta nella più alta figuralità.

Il punto è che non è solo la tecnologia del linguaggio  ad essere controllata, ma anche la scelta e l’accessibilità del contenuto. Solo che attraverso il prodotto artistico questo accade su di un piano di coscienza che si svela allo spettatore solo nell’atto partecipativo. E’ ancora una volta l’azione del messaggio il contenuto profondo, ossia – è lo spostamento all’interno di una azione visiva,  l’autentica esperienza. Il prodotto artistico non è altro che la torre, la scala su cui ci si innalza.

Campo di Rialto

Il Canaletto pittore –  dipingeva scenografie teatrali.

La cosa veramente curiosa di Canaletto, pittore del secolo dei lumi, è che in un certo senso ha anticipato la fotografia, ed il Cinema, nell’azione narrata dai suoi scenari: nella prima metà del ‘700 si conosceva già la “camera ottica” o camera oscura; si era già scoperto, cioè, che la luce, attraversando un forellino su una parete di una scatola, generava l’immagine capovolta di quello che c’era davanti al forellino. Solo un secolo più tardi si sarebbe scoperta la fotografia – ma intanto Canaletto si era attrezzato e dipingeva le sue vedute seguendo l’immagine proiettata sul fondo della camera oscura con cui si appostava in giro per Venezia.

E la cosa gli valse non poche critiche.

Ma ancor più importante dello strumento di cui si avvale – è il suo punto di vista, che è il vero principio interno che poi rende visibile nei suoi dipinti. Dopo di lui, ricordo l’esempio cinematografico di Andrej Tarkowskij, lo scultore del tempo.

I due artisti hanno uno strano modo di situare i personaggi: fu il Canaletto ad usare per la prima volta la scala (che poi verrà usata nel cinema) per dipingere sulla Laguna di Venezia: non da un ponte, o da una finestra o da un’altura naturale – ma da un punto da cui non è visibile normalmente nessuna cosa. L’immagine vista dall’alto, di una situazione che a terra è inesistente – perchè non visibile abitualmente – allora una quantità di momenti nuovi vengono rappresentati simultaneamente e che soprattutto restituiscono una vicinanza con il rappresentato molto più ravvicinata rispetto alle cose.. e questo è fantastico.

Ecco la volontà dell’artista accompagnata da un processo di integrazione verticale implicata a tutti i livelli dove tutto diventa accessibile, ma solo in quanto mediato attraverso un atto che in sè possiede tutto: direzione, forma e funzione.

Lenta, insensibile, trasparente – questa volontà di render dissimile:

dissimulare la forma, la qualità, la distanza e la misura del mondo che permane, mentre la relazione che instauriamo ne è trasformata

Andrej Tarkowskij

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